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Donne e dolore: endometriosi e vulvodinia

Affrontiamo un altro argomento tabù, quello del dolore femminile

Riconoscete questa immagine…?

La donna ritratta è avvolta dalle spine, nuda. La guardi e pensi che è bella, sensuale, ha pure una spada, potrebbe forse tagliare quelle spine e non lo fa. Sembra in preda non tanto a uno svenimento, ma più a un’estasi sessuale. Viene romanticizzata nel suo martirio. Non viene da pensare poveretta che male con tutti quei rovi, non c’è nessuno che la aiuta, è da sola.

Vi ricorda qualcosa? Magari è la vostra vicina di casa, un’amica, una conoscente. I suoi rovi si chiamano endometriosi, vulvodinia, fibromialgia, condizioni che sembrano dimenticate dalla medicina ufficiale.

Cos’è il dolore?

Il dolore è una sensazione somatica (cioè parte dal nostro corpo) spiacevole, che ha lo scopo di allontanarci da qualcosa di potenzialmente dannoso. Se tocco una stufa o metto un piede su un chiodo, sento male. Esso ha una connotazione emotiva negativa e questo aiuta lo stimolo doloroso a rimanere ancorato nella nostra memoria. Questo crea nel nostro cervello un insieme di stimoli e di esperienze, che percepiamo come negative e che quindi difficilmente andremo a cercare di nuovo.

Le fibre nervose che veicolano il dolore sono di tipo C (mieliniche sottili) e delta (senza mielina), su cui lo stimolo elettrico corre molto veloce, perché è essenziale allontanarsi quanto prima dallo stimolo doloroso, non appena ce ne rendiamo conto. C’è quindi un’attivazione somatica (legata alla rappresentazione corporea sulla corteccia parietale), cognitiva (di elaborazione del pensiero, che ha sede nella corteccia prefrontale) ma anche del sistema limbico, che è la sede delle emozioni e ha un ruolo importante nella memoria. Noi, come gli altri animali, impariamo ben presto nella nostra vita a evitare gli stimoli dolorosi.

Il problema insorge quando il dolore diventa non più qualcosa di esterno, da evitare, ma nasce all’interno del nostro corpo, e diventa fine a sé stesso.

Distinguiamo quindi, il dolore somatico (che è riferito a cute, tendini, muscoli, ossa, articolazioni) che colpisce la parte strutturale del nostro corpo, il dolore viscerale (ad esempio un dolore di tipo colica), che nasce negli organi cavi (del tubo digerente, ma anche delle vie genitali). Dall’altra parte esiste il dolore che si attiva in assenza di uno stimolo, il cosiddetto dolore neuropatico, che origina direttamente nella fibra nervosa, che diventa più sensibile, attivata con stimoli molto bassi o addirittura in assenza di stimoli (“allodinia”). Esso infatti non è più utile per comunicare la presenza di uno stimolo anomalo (interno o esterno), ma diventa una patologia da curare.

Il dolore quindi ha una connotazione emozionale spiacevole, che copre tutte le altre emozioni (difficilmente riuscirò a provare molta gioia se quel giorno sto male e ho dolore). Il dolore cronico è connesso con lo sviluppo di disturbi d’ansia e dell’umore, può essere causa di bassa autostima, autosvalutazione, basso rendimento scolastico e assenze dal lavoro. Diventa quindi una problematica di altissimo impatto sociale, per questo è importante riconoscerlo e trattarlo.

Le patologie ginecologiche caratterizzate dal dolore cronico di tipo neuropatico sono endometriosi, vulvodinia, neuropatia del pudendo. Sono causa di dolore cronico anche le infiammazioni pelviche e le sindromi aderenziali.

Il dolore è psicosomatico?

Parleremo di psicosomatica meglio più avanti. Quello che mi preme ricordare è che definire una condizione come psicosomatica non vuol dire che sia inventata o che sia “nella testa” (come purtroppo si sente dire da molti professionisti).

La psicosomatica studia come sono connesse le nostre emozioni con il nostro corpo. Al giorno d’oggi sappiamo che moltissime patologie risentono dello stress, a cui tutti siamo sottoposti nella vita di ogni giorno. Lo stress può voler dire aumento di pressione sanguigna, tachicardie, difficoltà digestive e intestinali, solo per fare alcuni esempi. Il rialzo dei livelli di cortisolo ha un effetto su altri ormoni, in particolare su quelli riproduttivi: amenorrea da stress o da eccessivo esercizio fisico, per esempio. Il cortisolo è un ormone controinsulare e può essere concausa di diabete e aumento di peso. Nessuno però direbbe a un diabetico che la glicemia alta è nella sua testa.

Serve anche intervenire sui percorsi formativi dei medici. Per esempio, se si sospetta una malattia psicosomatica, per il professionista è un segno di ingenuità dire al paziente “questa condizione è psicosomatica”. Si tratta sempre di una diagnosi ad esclusione, se dopo aver fatto indagini approfondite non è emersa una causa organica (e anche in questo caso dobbiamo essere coscienti che la scienza attuale non spiega tutto ed è sempre in continua evoluzione).

E’ più accettabile pensare che in persone predisposte lo stress si possa esprimere in vari modi e su organi suscettibili. Lo stress può essere frequentemente causa di contratture localizzate (un torcicollo, ad esempio) o generalizzate (come succede ad esempio nella fibromialgia) o a livello di organi interni (come il colon irritabile, chiamato anche colite da stress). Il tubo digerente contiene una quantità di neuroni pari a quella del cervello ed è il primo cervello che si è formato nell’evoluzione. Esso comunica in modo bidirezionale con il cervello principale tramite fibre nervose e neurotrasmettitori, ma non è meno importante.

La contrattura del pavimento pelvico può determinare la sofferenza di un nervo, chiamato #pudendo, e a sua volta il dolore evoca contrattura. Si crea quindi un circolo vizioso che mantiene la patologia (#vulvodinia), per questo è importante poter avere una diagnosi precoce (prima che la condizione cronicizzi) e un trattamento adeguato.

Nell’ endometriosi si sommano anche fattori di tipo anatomico: non c’è solo l’infiammazione legata alla malattia, ma la presenza di noduli profondi può intrappolare e attivare cronicamente le fibre nervose. Non è infrequente, per esempio, che in queste pazienti coesista un dolore di tipo sciatico. In alcuni di questi casi, con la risonanza si vedono noduli in vicinanza delle strutture nervose. Il dolore è causa di contrattura e la contrattura è causa di ulteriore dolore. Le pazienti con endometriosi andrebbero quindi inviate anche a valutazione del pavimento pelvico, per cercare di migliorare la situazione a livello locale.

Quindi, in queste condizioni c’è poco di psicosomatico, se non la sofferenza che deriva non solo dalla patologia stessa, ma anche dal fatto di non essere credute.

Come si misura il dolore?

Il dolore è un’esperienza soggettiva, come tale non può essere misurato. Il modo più usato per quantificarlo è l’autovalutazione in una scala da 1 a 10 (si chiama scala VAS – visual analogical scale-).

Ogni soggetto ha una sua tolleranza del dolore, per cui siamo consapevoli che il livello 1 (assenza di dolore) e il livello 10 (dolore massimo sopportabile) sono diversi in ogni individuo.

Riconoscere il dolore dell’altro è una parte fondamentale dell’empatia, vuol dire ricevere attenzioni e magari un aiuto per lenirlo. Il dolore dell’altro è meritevole di rispetto, che vuol dire anche non giudicare il modo in cui si esprime dolore o il motivo del dolore, anche se apparentemente futile. Questo è un errore che si fa spesso con i bambini, dire “non ti sei fatto niente” sminuisce l’esperienza dell’altro e non è sinonimo di empatia, anche se a volte viene fatto con le migliori intenzioni.

Se vediamo qualcuno che soffre, già chiedere “ti senti bene? Tutto a posto?” è importante. Importante soprattutto mentre si fanno procedure mediche invasive, come può essere ad esempio una visita ginecologica.

Il dolore delle donne vale meno?

Nella società patriarcale (di ogni luogo e cultura) sì, e questo è scientificamente provato.

Diversi studi scientifici ci dicono che il dolore femminile viene sottostimato, come se fosse più carico di emotività e meno reale, rispetto a quello maschile, che verrebbe espresso meno e sopportato stoicamente. Questo stereotipo colpisce sia l’operatore sanitario sia la gente comune, senza differenze tra uomini e donne, vale a dire è un errore in cui cadono sia i dottori sia le dottoresse. Ciò rappresenta un problema molto importante, dove la mancanza di empatia e di attenzione ha conseguenze anche sul trattamento. In questi studio alle donne con dolore cronico viene consigliato più frequentemente un supporto psicologico, agli uomini vengono prescritti farmaci di tipo oppioide.

La prima cosa di cui si lamentano le pazienti con endometriosi è di non essere credute dal medico e dalla società, di essere ritenute esagerate e che i loro disturbi vengono frequentemente passati per psicosomatici, come se il dolore fosse nella loro testa. Nel frattempo che queste donne vagano da uno specialista all’altro alla ricerca di una diagnosi, la malattia progredisce perché non viene data una cura. Da una parte è vero che una diagnosi di endometriosi non è facile e che una visita e un’ecografia di base frequentemente non mostrano alterazioni, ma qualcosa sta cambiando in questo senso, anche grazie alle associazioni di pazienti. Si parla di più di endometriosi, tendenzialmente i medici sono più informati e questo abbrevia i tempi per la diagnosi (ma purtroppo non è sempre così e la qualità dei servizi in Italia è a macchia di leopardo).

Ancora peggiore la situazione per la vulvodinia e la neuropatia del pudendo, patologie per le quali c’è molta meno cultura e nessun riconoscimento politico, sociale e sanitario.

La medicina è patriarcale?

La terapia del dolore è una questione molto importante nella medicina di genere, cioè quella branca della medicina che analizza le differenze tra come una patologia si presenta nel maschio e nella femmina.

La donna non è un uomo in miniatura, ma ha delle caratteristiche peculiari a livello di frequenza con cui si presenta una certa patologia e risposta ai farmaci, in virtù del quadro ormonale, che cambia notevolmente nel corso del ciclo mestruale e con gli eventi fisiologici, come gravidanza, allattamento, menopausa, e per l’utilizzo di farmaci contraccettivi.

Ammesso che il dolore della donna sia preso in considerazione quanto il dolore dell’uomo, il trattamento sarà comunque diverso, con aggiustamenti che devono essere anche individuali.

Il dolore neuropatico cronico risponde poco ai comuni antidolorifici (FANS, paracetamolo), ma merita un trattamento specifico. L’uso cronico di questi farmaci prevede l’associazione con un gastroprotettore.

Purtroppo c’è uno stigma anche nei confronti delle terapie. Sembra che somministrare un oppioide o un cannabinoide porti a equiparare la persona alla tossicodipendenza, quando al contrario si cerca solo di avere una qualità di vita decente e dignitosa.

Ci sono alcuni psicofarmaci che agiscono sul dolore neuropatico, come l’amitriptilina, che a basso dosaggio serve per alzare la soglia di attivazione delle fibre nervose. Questo farmaco può essere usato anche localmente, in creme da spalmare sui trigger point dolorosi nella vulvodinia.

La fisioterapia del pavimento pelvico aiuta a ridurre le tensioni muscolari ed è una parte essenziale della terapia della vulvodinia, ma andrebbe proposta anche nell’endometriosi.

Tra le medicine integrative, può essere efficace l’agopuntura, che però richiede visite mediche settimanali (solitamente sono cicli di 8 settimane, da ripetere) presso medici privati. La mindfulness può aiutare a gestire meglio il sintomo e lo stress che ne deriva, se praticata costantemente. Il massaggio può servire a ridurre le tensioni muscolari, anche se difficilmente agisce sui tessuti in profondità. Praticare attività sportiva è un modo per aumentare in modo fisiologico le endorfine, ma non tutti stanno sufficientemente bene per fare sport. Infine, ci si può aiutare anche con integratori specifici a base di estratti fitoterapici. Anche questi diventano alla fine del mese una spesa importante.

Per questo serve anche un intervento di tipo politico volto a tutelare le persone affette da vulvodinia e endometriosi.

Esiste un dolore che aiuta e fa bene?

Il dolore che fa bene è solo quello che ha uno scopo e che ha un tempo limitato. Il dolore del parto, ad esempio, non è fine a sé stesso, ma aiuta a rilasciare ormoni importanti per il corretto svolgimento del parto stesso, come l’ossitocina e le beta-endorfine. Il dolore durante il travaglio dà indicazioni sulle posizioni in cui il bambino si adatta meglio al canale del parto. Durante la fase espulsiva, il dolore dà indicazioni su quando spingere. Nell’evoluzione della specie umana, se la donna partorisse senza dolore, rischierebbe di dare alla luce suo figlio in condizioni di pericolo o in ambiente ostile. Il dolore di un travaglio prolungato è anche il prezzo che paghiamo per dare alla luce figli con una scatola cranica che è più grande del nostro bacino. Infatti, ci vogliono molti aggiustamenti sia per la madre che per il bambino per trovare la giusta combinazione, che consente il parto nella maggioranza dei casi.

Il dolore del parto è un’esperienza molto potente, difficilmente il corso preparto dà una rappresentazione realistica di quello che succede in quei momenti. Molte donne escono turbate da un’esperienza in cui non solo provano un dolore molto intenso, ma hanno la sensazione di non avere alcun controllo sul proprio corpo. Questo soprattutto quando avviene un taglio cesareo, molte donne riferiscono un senso di impotenza e di aver assistito inermi allo strazio del loro corpo (“mi hanno tenuta per ore in travaglio per poi farmi un cesareo”), come se quei momenti che ci sono stati prima fossero stati inutili.

La donna può recuperare la sua centralità nell’evento nascita, lei è protagonista del mistero della vita e deve esserlo delle scelte che avvengono sul proprio corpo.

Scelte che a volte vengono ostacolate, quando ad esempio non si garantisce a tutte l’accesso all’analgesia epidurale, che pure è nei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) dal 2017. L’epidurale non risolve del tutto il problema del dolore (perché copre solo la fase centrale del travaglio, cioè quella della dilatazione), ma consente di riposarsi per qualche ora, prima di entrare nella fase espulsiva, in cui serve forza e coordinazione.

Dolore e patriarcato

Il dolore è la punizione biblica per aver disobbedito: “tu donna partorirai con dolore” non è una condanna ma un dato di fatto. Questo non riguarda solo il dolore del parto, che abbiamo visto avere degli scopi ben precisi. Qualsiasi altro della donna diventa un dolore biblico “a rate”.

La nostra stessa esistenza è scandita dal dolore, fin da quando diventiamo donne. Il dolore del ciclo, quante volte viene sottostimato e non considerato neanche dalla propria madre. In caso di assenze scolastiche nei corridoi della scuola echeggiano le parole “quante storie per una mestruazione”. Ora finalmente iniziamo a conoscere meglio patologie come l’endometriosi, questo ci aiuta a dare una forma fisica a qualcosa che fino ad allora si pensava fosse solo “nella testa”. Ma quanto lavoro c’è ancora da fare sulla consapevolezza sociale.

Il dolore del primo rapporto, una tradizione che si tramanda di informazioni sbagliate. Il primo rapporto non è sempre doloroso e non si perde sempre del sangue. Forse si dovrebbe insegnare alle ragazze che al momento del primo rapporto è bene proteggersi con un contraccettivo, usare del lubrificante, adottare delle posizioni in cui si può regolare la profondità della spinta. Magari passare l’idea che può essere una buona esperienza per entrambi, invece di tramandare storie di sigilli spezzati (il famoso imene, penetrato dal “principe azzurro”), tipici costrutti patriarcali. Quanti casi di vaginismo ci sarebbero in meno se tutte le ragazze avessero a disposizione un’educazione sessuale accurata ed esaustiva.

Il dolore dell’abuso, fisico e psicologico (“violenza di genere”) nelle sue tante forme, a cui, secondo le statistiche, vanno incontro il 30% delle donne (soprattutto giovanissime) e il 50% delle donne della comunità LGBT+, solo per il fatto di essere donne ed essere rappresentate come prede, creature deboli e di minor valore. L’abuso ancora più abominevole a cui vengono sottoposte milioni di bambine e ragazze nel mondo, mutilate per il solo scopo di impedire loro qualsiasi piacere sessuale.

Aggiungiamo anche che la donna prova dolore anche per un’apparenza estetica (“se bella vuoi apparire un poco devi soffrire”). Con le conseguenze assurde che chi non si adegua diventa un bersaglio: un’ascella non depilata diventa uno strumento di lotta politica, le gambe poi non ne parliamo, sembra che sia ancora più inaccettabile tenerle libere e al naturale. La donna non può invecchiare, deve sottoporsi a procedure estetiche, più o meno dolorose e invasive, per tenere sotto controllo i segni del tempo. Pensiamo anche ai tacchi alti e le gambe nude di inverno: se siamo disposte a stare scomode siamo più appetibili sessualmente.

Qual è la colpa della donna per meritare il dolore? Non solo trarre in inganno l’uomo seducendolo con il frutto proibito, ma il fatto stesso di esistere, sfidare l’uomo nella lotta per la parità, voler decidere del proprio corpo (cosa che non è possibile in molti paesi, vedi la questione sull’interruzione volontaria di gravidanza) e non solo fare da incubatrice per la prossima generazione a venire, essere protagoniste del proprio piacere.

Combattere il dolore insieme

Cosa possiamo fare per combattere il dolore? Allearci, riscoprire una sorellanza, credere all’amica che dice di stare male, offrirsi di aiutare anche con piccole commissioni se ci è possibile. Fare attenzione ai messaggi verbali e non verbali. La persona che prova dolore ha delle risposte somatiche di difesa e si esprime anche con una mimica facciale. Il body language è un messaggio involontario, che è difficile controllare, per cui ha anche un maggior valore di quello che viene detto ed esplicitato.

Creare una rete di ascolto e di condivisione. Questo viene fatto molto bene dalle associazioni di pazienti, che costituiscono un punto di riferimento per tante persone. Ci sono donne che arrivano a un’autodiagnosi per aver letto storie simili alle loro su internet, dopo aver girato studi medici per quasi un decennio. Diffondere consapevolezza su patologie come endometriosi, vulvodinia, fibromialgia vuol dire anche aiutare le persone a sentirsi meno sole.

Saper ascoltare vuol dire in primo luogo non giudicare le scelte altrui e non sostituirsi all’altra nel prendere decisioni. Non dare consigli non richiesti, ma semplicemente poter dire frasi del genere: “hai bisogno di aiuto? Posso fare qualcosa per te? A me è successa una cosa simile, posso raccontarti io come mi sono comportata?”.

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