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La parola counseling viene utilizzata nel contesto psicologico per la prima volta nel 1908 da Frank Parsons, e poi ripresa nel 1951 da Carl Rogers, che fonda una corrente detta dell’approccio centrato sulla persona.

L’approccio centrato sulla persona, per i tempi in cui viene proposto, è rivoluzionario: esso mette sullo stesso piano il counselor ed il cliente. Fino ad allora il terapeuta era ritenuto l’esperto, ed il cliente un soggetto fragile, debole, e bisognoso di aiuto. Carl Rogers per la prima volta afferma che il cliente ha in sé le potenzialità e le risorse per risolvere il suo problema, ed il compito del terapeuta è quello di facilitare l’emergere di tali risorse. Il terapeuta agisce come specchio, che rimandando le emozioni del cliente, ne favorisce l’introspezione ed il contatto con i sentimenti più profondi. L’emergere di tali sentimenti mette in grado il soggetto di attingere alle sue risorse più forti e vitali, e lo aiuta a trovare la sua soluzione al problema, senza che essa venga imposta dall’alto. Infatti, secondo questo approccio, l’emozione accompagna e facilita il comportamento diretto allo scopo. Il cliente, in questo modo, realizza la sua tendenza attualizzante, cioè diventa ciò che è destinato per sua natura ad essere, al di fuori di ogni condizionamento esterno.

Secondo Rogers, il terapeuta non deve approcciare il cliente ripetendo meccanicamente un metodo e delle regole. Il terapeuta mette sé stesso ed il suo essere come strumento a disposizione del cliente, e porta nella relazione di aiuto tre condizioni fondamentali. Queste condizioni sono rappresentate da: accettazione positiva ed incondizionata, empatia e congruenza. Esse rappresentano l’humus in cui il seme, già presente nel cliente, può germogliare.

L’accettazione positiva ed incondizionata consiste nel fatto che il terapeuta mostra di accettare quello che il cliente gli porta, ed esclude qualsiasi tipo di giudizio, sia in senso positivo che in senso negativo. Ad esempio i sentimenti perdono le connotazioni, che vengono date comunemente, e vengono accettate come una parte di sé, che non deve essere negata, rimossa o oggetto di vergogna. Nel momento in cui il terapeuta accetta quello che gli porta il cliente, anche il cliente sarà in grado di accettare sé stesso, e questo è il primo passo verso una maggiore consapevolezza del proprio mondo interiore. Ciò può talora porre dei problemi se il cliente porta questioni, che si scontrano con il sistema di valori del terapeuta. Questi potrà decidere un eventuale invio ad un collega, se riterrà opportuno di non poter seguire il cliente nel modo più adeguato.

L’empatia è quella condizione in cui il terapeuta si sente insieme e dentro ai sentimenti del cliente (come richiama l’etimologia, en pathos), riesce a vedere il mondo come egli lo vede, ne capisce la cornice di riferimento, e gli rimanda quello che ha visto e sentito ad un livello ancora più profondo, favorendo così la sua introspezione. Questo deve avvenire senza fornire giudizi, e non in modo dichiarativo, cosa che farebbe sentire il cliente sotto una lente di ingrandimento.

L’empatia consiste, quindi, nel mettersi nei panni dell’altro, e può manifestarsi secondo una scala in quattro livelli:

  • il livello 0 è un responso che non mostra segni di comprensione per i sentimenti del cliente. Può essere un commento irrilevante o ironico, un giudizio sul cliente o su persone a lui vicine, o un consiglio.
  • Il livello 1 corrisponde ad una comprensione parziale, che rimane in superficie, perdendo qualcosa dell’esperienza che viene riportata. Può essere espresso con un “come ti capisco” oppure “questo deve essere molto duro per te”, che assomiglia più alla simpatia, che non alla vera empatia.
  • Il livello 2 consiste nell’empatia accurata, chi ascolta mostra comprensione e accettazione delle emozioni di chi parla.
  • Il livello 3 si raggiunge quando si riesce a sondare con una riflessione del profondo, che fa emergere sentimenti sottostanti, anche al di là del livello di consapevolezza immediata del cliente.

In questo percorso di condivisione chi ascolta è attraversato dai sentimenti di chi parla, ma sa distinguerli dai propri, anche quando toccano temi sensibili per il terapeuta. Qui entra in gioco la congruenza: l’ascoltatore è sé stesso in modo reale, e non vuole sostituirsi al cliente. Non gli proietta sentimenti che non appartengono al mondo interiore del cliente, ma che sono i propri. Se questo avvenisse, ci sarebbe una perdita di congruenza, che comporta necessariamente anche la perdita dell’empatia. Una possibile causa può essere il fatto che il terapeuta porti in sé questioni irrisolte, e non sia in contatto con il proprio mondo interiore. Altre situazioni in cui può verificarsi un blocco di empatia è quando il terapeuta ha delle teorie preconcette (cioè dei costrutti) sul comportamento umano, o dei veri e propri pregiudizi, o ancora se porta i suoi bisogni e le sue paure nella relazione di aiuto.

Possiamo quindi capire che le tre condizioni si presuppongono l’una con l’altra, e che devono essere mantenute perfettamente intatte per tutta la durata del colloquio.

Un altro elemento fondamentale è che il terapeuta abbia fiducia e creda fermamente nelle potenzialità del cliente di risolvere il suo problema e nella sua tendenza attualizzante, e che, di conseguenza, rifiuti ogni forma di direttività. Nel counseling non si danno consigli, e questo può essere percepito all’inizio spiazzante per il cliente, che nel primo approccio potrebbe volere dal terapeuta una soluzione ai suoi problemi. I consigli, infatti, sono particolarmente dannosi, in quanto mettono il terapeuta nella posizione dell’esperto, creano dipendenza, e non favoriscono la tendenza attualizzante del cliente, che percepisce il terapeuta come un interprete migliore del suo mondo interiore rispetto a lui stesso.

Nell’approccio centrato sulla persona, il percorso è tracciato dal cliente, il terapeuta lo segue e lo aiuta ad orientarsi, come se si trovassero in una selva oscura ed intricata. Anzi, se in alcuni momenti il terapeuta tende ad allontanarsi da questo percorso, è il cliente che lo aiuta a rientrarci correttamente. Infatti, il terapeuta fornisce uno specchio alle emozioni del cliente, ma in alcuni momenti potrebbe rimandargli elementi che non gli appartengono. In questo caso il cliente ne espliciterà l’estraneità, ed avrà l’occasione di chiarire meglio al terapeuta e a sé stesso che cosa intendeva realmente dire. Se invece il terapeuta tentasse coscientemente di portare il cliente su di un percorso da lui stabilito, questo comporterebbe necessariamente la perdita dell’empatia, nel momento in cui il cliente percepisce di essere manipolato. In questo caso, infatti, la centratura sarebbe su chi ascolta, e non su chi sta parlando.

Bibliografia

Rogers, C.R. (1951) Client-Centered Therapy: Its Current Practice, Implications, and Theory. Ed Robinson

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